Osservazioni sulle derive del femminile nell’Europa di Mezzo.
di R. Csendes – Trieste
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Questi dolori non possono essere
sottovalutati, poiché riguardano
la metà del genere umano.
(Elizabeth Badinter, La strada degli errori. Il pensiero femminista al bivio)
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Dopo tanti anni di capriccioso, onnipresente oscurantismo qualcosa sembra muoversi. Complice la crisi economica, appare chiaro che “darsi addosso” diventi un metodo di comunicazione sempre meno nobile, almeno per quanto preventivato dalle Erinni della tarda modernità.
Occorre spiegare a chi vuole ascoltare che la violenza ed il degrado vigenti nei dissapori di genere sono pratica comune in tutta la società, e non più solamente, come dice l’assurda, dicotomica cultura anglo-americana (quella di esportazione, sia ben chiaro, non quella che fanno a casa loro) – che le donne italiane hanno pedissequamente copiato – un problema riferibile esclusivamente all’uomo e alle sue invocate colpe congenite.
Una cosa è certa, la donna d’Italia ci è contro; contro sul posto di lavoro; contro nei fatti della coppia; contro, purtroppo, in casa; contro, ancor peggio, nella vita pubblica quotidiana; contro nelle relazioni formali, contro infine, negli impegni della vita, quelli inderogabili: convivenza civile; accettazione, non sempre facile, delle prerogative altrui; momenti di difficoltà finanziarie e familiari; precaria diffusione di una cultura evoluta, favorevole alla collaborazione inter-etnica e multiculturale. Poi, arriva l’uomo di potere e tutto è correntemente rinegoziabile, anche la dignità (Pride? Dignity?) assieme al dogma avversativo che, evidentemente, non è poi così intoccabile.
Ciò si osserva, con più chiarezza, al momento di comparare le dottrine del rifiuto e della
ghettizzazione di genere, così trendy, con quanto è vissuto pacificamente nei paesi dell’est europeo. L’impressione è che a Beograd, o a Bratislava, intervengano più variazioni nei comportamenti sentimentali, e più apprezzamenti “umanistici” da parte di ambo i generi (non censori né, per principio, oppositivi e classisti) sui misteri dell’amore.
Il “maschio pentito”, alla ricerca del sospirato attestato di “femminilità” che ne concretizzi l’alto grado di accettabilità presso il club delle Amazzoni, imberbe mascotte sulla scena sull’evirazione felice, non riscuote gran successo in piccole e vivaci città, come Split o Maribor. Chiamano la conoscenza approfondita dei paesi stranieri “turismo eccetera”, ma, provincialismo moralistico a parte, come definire allora la corte delle promozioni “generose”, ovvero l’alto Ranking conquistato [?] dalle donne della politica “giovane” e come chiamare con invitanti eufemismi tali fenomeni così italianamente radicati: “nuovo garantismo?”; “promozione postmoderna?”; “professionalità complessa?”
Senza contare che, ad esempio, per una donna slovena di classe popolare, cercare di indurre nel “suo maschio” il disgusto esistenziale, l’asservimento, l’avvilimento e il disagio non comporta le solite immancabili soddisfazioni. Al contrario, la donna italiana sembra “rinnovarsi” al momento di canzonare le incertezze dell’uomo, sbugiardandone le difficoltà, lo spaesamento ed il dolore anche fisico. Altrove, negli ambiti della convivenza sociale, tali sintomatologie psicotiche, quali l’“ottimismo misandrico” non hanno gioco, poiché nessuna pedagogia avversativa sembra poter più offrire un contributo positivo alla sostenibilità dell’esistente. Questo, almeno, nella lezione apprendibile dai genitori – e dalla società di riferimento – poi, nei casi particolari, ovunque si possono imporre le formule anti-educative tristemente conosciute.
Sarà, forse, che erano paesi socialisti, fatto sta che l'”inibizione” non era [ne è] considerata questa gran qualità individuale, e neppure un’invidiabile virtù civica. Per le culture etniche la volontà castrante e punitiva è recepita come prova di inettitudine e vigliaccheria, oltre che come complesso problema psichiatrico e farmacologico (sono paesi con una medicina di prim’ordine), su cui la società non ha difficoltà ad esprimersi.
Nell’odio cieco per il maschio ogni donna emancipata legge la penosa (ma anche spaventosa) incapacità che molti esseri umani hanno di poter vivere sentimenti che siano, effettivamente, propri, al di fuori dell’odio.
Non è tutto oro, certo (ci mancherebbe!), ma, in linea generale, per molte donne slave (ceche; slovacche, soprattutto) l’uomo è, talvolta, la controparte, ma non certo un personaggio da educare (“addomesticare”), o un inferiore da perseguitare, odiare e distruggere moralmente. Per chi ha superato i vent’anni, quello che impressiona è il rancore diffuso per la vitalità esterna, per ciò che si stima autonomo ed adulto. Quando invece, per le donne orientali nate fino al 1990, il “sogno” di considerare l’uomo, al più come un barbocino rosa o una dama da compagnia ansiosa e passiva corrisponde ad un progetto di conquista assurdo e sospetto e, in ogni caso, inutile per il rafforzamento dell’orgoglio personale.
Fatto salvo questo, è molto probabile che queste differenze etniche tenderanno a stemperarsi nel tempo.
Nei litigi (anche quando molto accesi) le donne delle culture etniche sono più tolleranti, non reputano necessario chiamare le forze armate a casa tutte le volte, cercando di terrorizzare il compagno, ambendo a sopraffarlo in ogni sciocca contestazione.
Insomma, allargando l’orizzonte, le attuali difficoltà muliebri emerse nella dimostrazione e condivisione dell’esperienza affettiva sembrano legate a discriminazioni culturali e pregiudizi etnici. Le italiane dicono cose molto negative sulle popolazioni slave, anche se si tratta, com’è facilmente immaginabile, di scontate reazioni competitive che si sommano a pregiudizi discriminanti solidamente acquisiti. Fair Play, questo sconosciuto.
Tristemente, i problemi di relazione manifestati dalle donne attuali sono accompagnate da logorroiche pseudo-argomentazioni, riferibili alla minacciosità manifesta nel differenziale anatomico, o all’“indecenza” e accidentalità biologica dell’essere maschi.
R. Csendes