Recente deserto

28/04/2013

Dove hanno fatto un deserto ora lo chiamano Civiltà

di R. Csendes

“Andiamocene!”.

Non che non vi siano rischi nell’emigrazione sentimentale. Cioè nell’evasione esterofila, come pratica di conservazione e cura della dignità violata. E’ un suggerimento, non si può lottare senza prospettive di sconfitta. Solo le borghesuccie la pensano diversamente. Comunque, prima di alzare i tacchi, alleniamoci, dal punto di vista situazionale ad incalzare le nostre tignose avversarie. Che, fino a prova contraria, sono comunque italiane, se non altro perché siamo italiani anche noi e, fino al termine del gioco, saranno costoro le interlocutrici più probabili. Questo detto per introdurre la validità dello schema “spezzare il fronte delle donne”. Un’avanguardia “da retroguardia”, per così dire, come dire: un’animale immaginario. Commistione anticulturale di furbizia e reazione che, lo sappiamo, vale ancor meno della puerile rozzezza ideologica che gli ha dato vita sintattica e saccenteria semantica. Già. “Le donne del mondo” contro “gli uomini”; idealtipi astorici adolescenziali non c’è che dire, brani qualunquistici di un’elementarità sconcertante. Eppure, questa McDonaldizzazione ideologica (e dei comportamenti) è facilmente emigrata dagli Usa fino a giungere all’uscio d’Europa, e con poche battute d’arresto (l’Antimperialismo?; l’Anticolonialismo? Ed oggi?). L’imperialismo della castrazione si è imposto. Va detto che, in effetti, l’obiettivo di tale sterile furore non saremmo neppure noi. La guerra è alla differenza, è al desiderio. Non è un caso che dalla guerra dei sessi (si era almeno in due!) si è non troppo disinvoltamente passati alle narrazioni dell’odio di genere. Buona pace alla parola “sesso”, che è stata puritanamente “espunta” (come nelle tavole disneyane); e poi di generi ce ne dovrebbe essere uno, solamente. Difficile immaginarsi quale?

Ritualità paranoiche.

Non passa giorno, nei tediosi battibecchi sul posto di lavoro, o nell’acrimonioso sessismo da bar, che l’“ecumenismo misandrico” non inibisca concreti confronti sull’oggi, per arroccarsi su un’ottusa, rabbiosa metafisica della rivendicazione. Turpiloquio pieno di immaturità, frutto di formazioni non completate, di letture alto-borghesi mal comprese ed ancor più distortamente strumentalizzate. Banalità offensive che derivano dall’incapacità nel voler solo “osservare” i problemi interni, le egodistonìe. L’atteggiamento ostile è così fermo da produrre l’effetto di disorientarci, garantendoci comunque, quella mezz’oretta di frustrazione. Il principio (come nelle capitanate infantili – indiani contro cow-boy) è semplice, “fronte comune” contro uno: tu, uomo, che sei il malcapitato del momento, nel caffè sbagliato, in un’incantevole piazza. Invece di lasciar perdere, non sottraiamoci al confronto diretto. Dopo prove e riprove “il bisturi del differenziale etnico” si è dimostrato un buon argomento a (loro)sfavore, di contro-interrogazione dialettica ed “espulsione” emotiva della violenza dell’altra. Della reazionaria, dell’intollerante. Bastano poche interrogazioni a disturbarle: “[detta alla Goebbels – Magda – di turno] vorresti farmi credere che, stando al tuo mundialismo cerebrale, conosci le donne di Ljubljana, che sai qualcosa di loro?”; oppure: “ah, e tu fai gli interessi delle praghesi, ma guarda?!” Banale, ma le lezioncine – già in canna – delle pedagoghe improvvisate si inceppano all’improvviso, gli item svaniscono, come negli X-files. Il tentativo di costringerti ad una pseudo-dialettica a ruoli fissi – con vittima potenziale, che propina al violentatore, potenziale, il necessaire sul come fare ‘autocritica’ in termini evirativi – si capovolge del tutto. La petacciona in cerca del solito discorsetto a vincita obbligatoria, non sa che pesci pigliare, annaspa nel giustificarsi. Finchè, stappato il sigillo della frode, amplifica il sistema imparato da mamma-papà (che per molte dalle mie parti corrisponde ad un’entità femminile unica, sembrerebbe): urla; insulta; aggredisce verbalmente con argomenti troppo triviali e gratificanti (per noi) perché valga la pena di riferirli. Sulla stupidità non si infierisce. La
“Rappresentante mondiale” è in contraddizione e subisce il colpo! Difatti, come si sa, a queste anchilosate ego-maniache, delle donne “del mondo” interessa loro quanto potevano interessare alle fanciulle austro-tedesche (piene, come le nostre, di disfunzioni sessuali ed ottuso, isterico risentimento) del 1943 le sventure e l’estinzione delle donne di cultura ebraica. Ahimè, in gran parte dell’Est Europa, Polonia in Primis. Da noi, alle Sospiranti – per le prodezze dell’uomo-uccello Italo Balbo – quanto poteva importare delle donne eliminate dalla violenza (orgogliosamente femminile) nazi-fascista? Eppure, in Italia vi furono donne partigiane, si dice, o almeno si diceva. Bè, sono state poche e molto coraggiose (T. Anselmi; L. Castellina…certo). E comunque, a dirla tutta, il termine “partigiana italiana” è quasi un ossimoro. Poiché il fenomeno, fu storicamente ben ridotto, almeno se paragonato con i ben più robusti numeri di “sacrificate” messe in campo da serbe e slovene.

La diversità cacciata; uno sport tutto al femminile.

Nell’intervento “Ragguagli dalla Mitteleuropa” l’intendimento non si limitava allo svalutare la donna italiana (basta frequentarle…). Costituiva un punto di partenza utile per sfiziosi controattacchi. Gestiamo la scomoda (per loro) arma argomentativa della diversità inter-etnica e dell’autonomia culturale degli esseri umani esterni all’occidente genderista. Usiamo quest’arma, che infrollisce l’altra metà della mela. Non contano i campanilismi in questo ragionamento. Il confronto è solo tra: particolarismi e dialettica inter-etnica Vs la graniticità totalitaria dell’universalismo monogenere. Con i confronti ci chiariamo le idee: chi sono veramente queste illiberali? Le “fanatiche giornaliere”, e lo si scopre con sofferenza, odiano le diversità. Tanto più che il confronto inter-etnico (come pure inter-sessuale) risulta per loro una lezione insopportabile. Persino la Terragni, nel pur modesto “La scomparsa delle donne” (2007), non potè evitare di riconoscere che, le donne postmodern “sanno” amare l’altro solo quando è a loro immagine. E perciò, scrive, dagli uomini, per amarli, noi italiane “pretendiamo che a loro volta diventino un po’ donne, in un vortice di de-generazione, in un gioco di specchi deformanti, come quelli dei Luna Park. Ci lagniamo della scomparsa dei ‘veri uomini’, ma poi l’alterità dell’altro ci sembra un insopportabile tradimento”. (pp. 17-18). E lo dicono anche [!]: “l’alterità dell’altro è un tradimento!!”. Nel passaggio si possono togliere i “sembra”, mi pare. Si finisce nel solito contesto di degrado e rifiuto dell’altro. Tutto ciò riguarda l’impatto del codice misandrico (etno-centrico) entro la sfera delle relazioni pubbliche, abitudinarie. Queste qui sognano una Camelot con tanto di schiavi e svuotacessi a seguito, e non possiamo fare nulla per loro, ma qualcosa per noi sì. Stanno bene nel deserto, almeno finchè qualcuno le vezzeggia e si spreca. Distanziarsi, allora! Tramite gesti, nel rifiuto delle provocazioni, nei silenzi di scherno. Per non farci umiliare, per proteggere noi, le nostre provenienze, ma anche per valorizzare le nostre compagne ed amiche. Capiranno a loro spese che l’Uomo Beta, di loro, non ha più bisogno. Poi, è vero quanto scritto dagli autorevoli, dall’amico Rino Della Vecchia (per cui ho solo viva ammirazione, come per Fabrizio Marchi e per Paolo Messia), per forza! Per le donne dell’Est (e Centro) Europa possiamo assumere varie forme, e, non di rado, ben poco lusinghiere: lombrichi; tonni; cetacei di varie dimensioni; pesciolini rosa, in passato rossi ed anche bestie da soma terrestri. Ma, signori, per le donne del nostro paese siamo dei fuchi imbellettati a festa! In Friuli (Trieste ne fa parte sulla carta, ed io non sono friulano) è impressionante il ricorrere della seguente catena gerarchica: madre-figlio/a più nonna materna. In altri termini, a replicarsi è il rapporto di sudditanza “mammona” della Lei, che in tal modo lega a filo (a fiocco) doppio il figlio esternalizzato. Forse per l’intera vita, protuberanza dell’io-donna, al punto da poter essere millantato quale produzione: ho fatto io!”. Poiché, anche se qualche “spermatoforo” avrebbe avuto un ruolo in tutto questo [….] è stato progressivamente esiliato. Ossia, destituito di senso, tagliato fuori dal rapporto familiare che ne è seguito, e che finirà per sovrastarlo. Che gli resta? Imprecare, drogarsi di lavoro (se c’è…), tornare a casa il più tardi possibile, “mongolfierarsi” di birra e tifare Udinese! L’intruso a casa propria. Il focolare è spento, o, collodianamente dipinto. Altro che ometti sotto le sottane di mamma a reclamare protezione eterna. Fanno parte del passato pre-americano, del passato con l’uomo che sta “in casa”, ma non in prigione. Alle passate, “eroiche”, rivalità madre-figlia sono seguite strutture seriali, mansuete e rigorose, di riproduzione sociale. In gran parte matrilineari e mono-genere. Asessuate e stabilizzanti. Ossia, caratterizzate dalla struttura, per dirla alla Freud, “anti-edipica”. In sintesi: “plasmanti un tipo di personalità ostile all’’esterno, che riconosce i soli omologhi”. Poiché a mancare è il terzo lato: l’uomo, l’educatore, questo indesiderato. “Io e mia madre conversiamo senza parlare”, è uno dei tanti aforismi misandrici.

Crepuscoli confinari.

Stando sul confine nord-orientale – che è solo uno strumento geo-strategico e null’altro – si apprezza l’eterogeneità della scelta; si guadagna ossigeno, si ritorna a sperare. E’ un mezzo di contrasto, un disvelatore di mediocrità femminili. E poi, è facile da credersi, per quanto siano brave a mascherare i sentimenti di intolleranza e fragilità per un dominio che, da queste parti, si sente sempre meno, alle signore buonasventura brucia: che si parli di slovene e polacche o consimili; che si vada in Ungheria o in Transilvania ungherese e glielo si sbatta in faccia; che ci si stabilisca a Bratislava per un’intera estate. L’esplicitato è: “non ti cerco più! Altre categorie femminili stuzzicano i miei interessi e sensi; non mi interessa godere della tua stima”. Loro recepiscono, e bene anche: “non sta fermo a pensarmi”. Semplicistico, ma in alcuni cervelli esistono costanti e non variabili. C’è l’odio per la mobilità del mondo, c’è il rifiuto (inamovibile) di correggersi, di cambiare qualcosa. Più di tutto, c’è la svalutazione dell’”identità storica”. Però, se il fine è l’emancipazione, cioè la lotta alla dipendenza femminile, occorre tutto concedere al realismo. Che non è una sconfitta. Significa: dignità maschile nella cura della – violentata e screditata – vita sentimentale virile, individuale. Navigando a vista non possiamo di certo aspettarci amori spontanei, automatici. Da questa aspettativa ci imbatteremmo in un campo minato di fuochi fatui. Poiché da esso proveniamo, che senso avrebbe muovere da una finzione per finire in un’altra? Non dovremmo richiedere, agli esordi, che semplici attenzioni. Intrecci che si creano “per magia” no di certo, a slogan “come natura crea”. Sono sogni non nostri questi. In una condizione di guerra per il dominio e la depredazione psico-economica del maschio tutto è scomodo, ma, cambiando campo da gioco può risultare provvisoriamente (o continuativamente) piacevole. Per un’ungherese (che non ti ama, né probabilmente ti amerà) sei uno straniero con le carte in regola; per una slovacca, un nome strano e “quanta gentilezza, da questo signore di passaggio”. Per una ceca, un’altra tacca in più, e comunque qualcosa di interessante su cui posare gli occhi e mettere in moto la fantasia. Perché rinunciare a tutto questo? Perché dovremmo lasciare a “lorsignore” la definizione delle nostre abitudini, quando loro stesse si lamentano e soffrono delle proprie? E poi, con siffatte puntate strategiche non scivoliamo certo in bocca al disprezzo. Sono esplorazioni, riappropriazioni di noi stessi, nell’esperienza diretta, non nei “joint” del mondo virtuale, gestito sempre e comunque dai pregiudizi classisti sui tacchi a spillo, ben puntellati dai fiancheggiatori a “virilità pentita”. Imprevedibilità, a basso rischio, nelle soddisfazioni relazionali e non solo fisiche; questo potrebbe prender forma all’orizzonte degli emigranti sentimentali. Ironia a parte, è una possibilità per molti di noi, per chi lo volesse, per chi è nelle condizioni di farlo. Nell’auspicio che sempre di più e meglio, per chi riesce ad organizzarsi, sia facile farlo. Nello splendido articolo “Le loro Maestà imperiali”, è pienamente tracciata la mediocre scena socio-sentimentale italiana, monopolizzata dall’impostura al femminile. Si evidenzia il legame (ovvio) tra il culto (ipocrita e passivo) muliebre delle elite, di cui parla l’autore, ed il pragma, da monomania genitalista (castrante; paralizzante), vera ossessione delle gentildonne. In realtà, le balille tricolori non possono che esibire la sola arroganza di cui dispongono con una certa onestà: quella del servo. Mosche cocchiere in camera caritatis, e poco meno. Sulle esalazioni femminili nella Penisola: “in Italia il valore complessivo di un maschio è circa tre o quattro volte inferiore a quello di una femmina. E si parla di un ‘valore’ quasi economico, nato dalle folli evoluzioni di domanda e offerta in questo settore, non certo di un valore reale. Visto che sempre più spesso capita di incontrare coppie decisamente male assortite. Uomini interessanti, simpatici, talora vistosamente attraenti, legati a donne bruttine, superficiali e tragicamente banali in ogni loro manifestazione”. Per concludere: “il mondo non finisce ai confini italiani. Il sapere che oltre il Brennero c’è un intero continente pieno di donne non irragionevolmente pretenziose è incoraggiante. […] […] oramai sono sempre più convinto che legarsi a un’italiana sarebbe come intraprendere la professione stabile di ‘zerbino’” (P. Messia). Chapeau!

1989.

In definitiva, amici, sostenitori del sito NO Matrimonio, Uomini Beta, la “fuga dell’uomo” è un fatto. Nel momento della giornata in cui lo percepiamo con senso di giustizia, andiamo ad immergerci nei flussi urbani, scendiamo nelle piazze recependo il nuovo, appagante, clima dell’esodo e dell’immigrazione. Muti-etnicità negli affetti, a noi non da fastidio. Rarefazione, che sa di chiarimento, di presa di distanza, di accordo almeno su un punto-chiave: “reciproca sfiducia!”. Lo scisma entra nei pori assieme al profumo di una vittoria a venire. Qui a Trieste, dopo la gran sbornia di donne dell’est ex-Patto di Varsavia (russe ed ucraine, in prima battuta; con esiti spesso tragici, eccome!) degli anni 1990, i legami si sono ulteriormente differenziati: caraibiche; brasiliane (tante!); peruviane; venezuelane; persino indiane (non d’America!). Certo, serbe (poche le greco-ortodosse) sempre molto dignitose, le immancabili ungheresi, ma anche ceche e slovacche. Magari si dimentica qualcosa, non lo so. E’ una tendenza che ho notato in tutto il Triveneto. Slovene, non ne parliamo! Sono di casa. E scusate, care le servette; queste sono donne indipendenti dalle madri! Nelle coppie miste chi è lo straniero, o, meglio ancora, l’italiano?

Siamo avvisati.

Accettiamolo fino in fondo. Loro, le dannunziane, hanno bisogno della mamma e della prole, entrambi considerati “proprietà” insieme al “tetto rubato”, non di noi. Almeno, non più (concedendo l’impossibile al recente passato, a cui credo poco). E lo dichiarano. Non ci apprezzano e non esibiscono alcun tipo di curiosità (se non quella di classe) che non sia simulata, per ottenere qualcosa in seguito, sulla nostra pelle! Più siamo indipendenti più ci odiano. Perché mai i loro progetti dovrebbero interessarci allora, considerato che, non solo a parole, ci escludono dai sentimenti più profondi? Casca bene il detto: “è la faccia che se ne deve andare dallo stivale!”. Al minimo. E perché allora non dovremmo prendere in considerazione l’appagante possibilità di sbugiardarle, di allontanarle da noi, di corroderne la sicurezza, consumando (nell’uscirne valorizzati) esperienze convalidanti, nei momenti e negli spazi vitali più favorevoli? Potrà essere amore? Forse no, poiché non è questo l’argomento che interessa e non è questa la fase storica che ci riguarda e ci impegna. Ma uscire, a più riprese, dalla dimensione asfittica-mentale (psichiatrica) discriminatoria e concentrazionaria che ben conosciamo non può che far piacere. Ti salva l’autostima e la vita.

Qualcuno se ne andò dal nido.

La “rivoluzione basagliana” è di queste terre, no? Ce ne vorrebbe un’altra, ma di genere! Fuori dai manicomi, quali sono stati i rapporti che eravamo convinti di intrattenere con ben strani esseri, corrotti e malati. Dediti ai farmaci e all’autoerotismo. Che, in futuro, siano poi rumene, rutene o ucraine, o bielorusse ad accompagnarci per un po’ saremo noi, con loro, a stabilirlo. Migrazioni “a stagione!”. Nei luoghi e nei modi (grazie al cielo) più italianamente condannati. Meglio una libera uscita che un’ora d’aria. A rigor di precisazione: meglio farfallone, che scimpanzé in cattività a cui, la gentile secondina promette, prima o poi, di assicurare la (tanto) negoziata banana del buongiorno!

R. Csendes, Trieste